Il transito di San Francesco – Chiesa Parrocchiale di SchivenogliaFrancesco Maria Raineri, detto lo Schivenoglia, come tutti sappiamo, nacque qui a Schivenoglia il 2 febbraio del 1676. Poi, all’età di ottantadue anni, il 28 febbraio del 1758, il pittore, dopo aver realizzato innumerevoli capolavori, decideva che era giunto il momento di ritrarre dal vero Madonne e santi. Lui, che aveva amato la pittura tanto da non aver avuto il tempo di affidarsi alle tenerezze di una moglie, lasciò i pochi averi raccolti durante l’esistenza e si incamminò per i sentieri dell’Onnipotente. Lo Schivenoglia si portò, probabilmente, quel suo cognome anche nell’alto dei cieli, e di fronte a san Pietro, è possibile, avrà preteso uno sguardo beneaugurante dell’antico pescatore di anime su quel microcosmo natale nascosto tra le terre di Lombardia.
Probabilmente, oramai felice di stare lassù, dimenticò di chiedere un qualche riconoscimento per se stesso, per quella fama terrena che ben avrebbe meritato. La vanità delle passeggere mode dell’arte distese, anno dopo anno, un velo di oblio sulla sua opera. Ma la riconoscenza dei suoi compaesani non venne mai meno. E il ricordo della sua opera continuò a vivere inestinguibile qui a Schivenoglia. Certo ci sono voluti duecentocinquant’anni prima che fosse editata la prima monografia dedicata alla sua opera e prima che venisse dedicata a lui una mostra retrospettiva che tessesse l’elogio della sua arte. Ma se la misura di duecentocinquant’anni può apparire enorme di fronte alla breve caducità delle nostre esistenze, è appena rapportabile al rapido trascorrere di un batter di ciglia di fronte alle dimensioni eterne dell’Onnipotente. Una folta pattuglia di qualificati storici dell’arte aveva, in realtà, da sempre tessuto le lodi di questo pittore bravo e bizzarro. Ma non spetta a loro il merito della monografia. Il merito appartiene soprattutto a due straordinarie persone di Schivenoglia, due persone schive e discrete eppure dotate di grande sensibilità e intelligenza oltre che di una modestia assoluta, tanto severa quanto oggi rara. Giuliano Spadini e Eligio Martelli, come avrete capito, sono coloro che si sono adoperati per una impresa quasi eroica che sta conducendo, passo dopo passo, alla riscoperta dell’artista. Ma ovviamente il merito dell’iniziativa di valorizzazione, cominciata con la pubblicazione della monografia di Giuliano Spadini, è assai più lungo e include il parroco di Schivenoglia, don Alberto Ancellotti, l’ex Sindaco, prof. Giancarlo Ghidini, l’Associazione degli Amici di Palazzo Te e dei Musei Mantovani che ha voluto e permesso la mostra a Mantova e, praticamente, l’intera comunità locale che è persino riuscita a trovare, in tempo di crisi, fondi sufficienti per acquistare un prestigioso dipinto dell’artista.
Ma parliamo ora soprattutto dell’artista. Francesco Maria Raineri, lo Schivenoglia, come molti di voi sanno, può essere considerato il padre putativo di una matrice tutta padana della ricerca artistico-pittorica.
Lo Schivenoglia è infatti figlio effettivo di un’area geografica fatta di modi, di visioni della realtà che vanno istintivamente ben oltre la percezione visiva per addentrarsi negli spazi dell’invenzione, del sogno e della fantasia allo stato puro e libero. Una particolare surrealtà, ante litteram, assorbita col latte materno genera in lui, da subito, la capacità, espressa poi lungo l’arco della sua intera esistenza, di osservare il mondo tramite gli occhi di un adulto e l’animo di un fanciullo perenne.
Francesco Maria Raineri apprende dal Canti la tecnica di una pittura stesa velocemente, con pennellate rapide e decise che, pur nella personale rielaborazione degli anni successivi, sarà un elemento distintivo e costante del suo operare. È questa la cifra stilistica che talvolta abbiamo imparato ad ammirare nelle scene di battaglia, con le sue caratteristiche figure allampanate e taglienti, frutto di un procedimento di istrionica accentuazione espressiva.
Questa sorta di Magnasco Mantovano sperimenta, tanto per capirci meglio, l’opportunità creativa di trasferire a più tradizionali soggetti profani e religiosi l’antiaccademica ricerca compositiva utilizzata nelle concitate pose dei cavalieri in battaglia. Agili pennellate deformano mano a mano i contorni dei suoi personaggi, le cui sagome si snelliscono come nelle immagini tirate per il lato sbagliato da un programma di fotoritocco. Le membra dei corpi sembrano smarrire le canoniche articolazioni e sono attraversate da una corsività antiretorica, alla faccia di ogni compassionevole e rigida composizione tradizionale. Lo Schivenoglia ci conduce pienamente all’interno del gran teatro del rococò, del fuoco scoppiettante dell’invenzione, della facilità funambolica del tocco, della vaporosa leggerezza delle figure, della ricerca dell’attimo fuggente, della modellazione di espressioni altamente pregnanti. Nel Mantovano nessuno meglio di lui, incarna, in pittura, un mondo che diventa sempre più laico e sempre più denso di mondana decadente aristocraticità. Raramente l’atmosfera dei suoi pezzi si immerge nella cupezza e nell’angoscia e le immagini si caricano sempre di una gioiosa vitalità e leggerezza.
Ma noi stasera non ci soffermeremo sugli esiti più rappresentativi della sua pittura parallelamente sincopata e funambolica, sulle deformazioni più irriverenti o sulle eleganze più artificiose.
Non cercheremo stavolta i fuochi pirotecnici delle preziosità luministiche che si accendono nel cielo della sua pittura. É l’esemplarità di un soggetto sacro che ci si porge. Musica e arte si esprimono, in questo appuntamento, in un luogo consacrato, in un luogo dell’Infinito che è anche spazio limitato e circoscritto. Non stupitevi per questa apparente contraddizione, intimamente legata all’idea della chiesa come tempio fin da tempi biblici. Ne parlava già, ad esempio, Salomone nella sua preghiera di consacrazione del tempio di Sion, quando si chiedeva se lo spazio da lui costruito potesse contenere l’immensità dell’Altissimo che nemmeno i cieli e i cieli dei cieli possono contenere (1Re 8, 27). Ebbene per citare un concetto di Borges, un personaggio più vicino a noi nel tempo, concordo nel ritenere che la bellezza e lo Spirito siano ineffabili e invisibili e ciò nonostante disvelino la loro essenza nella umana dimensione delle cose. L’arte cristiana, da sempre, nei suoi inenarrabili capolavori, ha ricercato questo ideale connubio, un connubio che qui a Schivenoglia si manifesta maggiormente da quando l’incanto del San Francesco non rende solo merito all’artista recuperato e riscoperto quanto a un concetto di bellezza e di eternità che non conosce caducità e che rende questo luogo santo ancora più santo.
Ma andiamo con ordine. Prima di osservare insieme il San Francesco, che rischiara, con la sua delicata ispirazione, l’intera chiesa, vorrei riportarvi con la memoria alla mostra allestita due anni fa alla Madonna della Vittoria e alla piccola serie finale di cinque straordinarie opere sacre, tutte databili intorno agli anni 1750-1752 e tutte e cinque di misure pressoché identiche. Si andava dall’Incredulità di San Tommaso alla Comunione degli apostoli, dalla Consegna delle chiavi a San Pietro, con l’eccezionale bonaria senile bellezza del vecchio san Pietro, alla Vocazione di Pietro e Andrea, sino a concludersi col Transito di San Francesco.
Si esemplificano bene in queste opere i modelli ai quali attingeva lo Schivenoglia. E si esemplifica soprattutto una scelta estetica che lo fa rapportare agli esiti più alti della pittura italiana del primo cinquantennio del Settecento. Lo Schivenoglia è un innovatore dell’arte del bozzetto e non solo perché ne rivaluta l’importanza e il valore di “originale” rispetto all’opera finita che, eventualmente, ne può scaturire, ma soprattutto perché sceglie, come modalità esecutiva, un metodo di lavoro che esalta tale inversione di valori. Per lo Schivenoglia la preminenza estetica dell’opera d’arte non si deve esaurire nella noia di una esecuzione accademica, in una versione in cui il raggiungimento della politezza del “finito” annulla il piglio dell’estro, della libertà esecutiva sciolta e spadaccina. Una esecuzione rapida e schematica, alla maniera del bozzetto, nel Settecento, era ancora destinata al semplice ruolo di elemento preparatorio, riservato solitamente a rimanere all’interno dell’atelier. Con lo Schivenoglia tale procedura diventa elemento cardine di una poetica che rinuncia volutamente all’accanimento virtuoso e certosino di una esecuzione insistita e manierata. Ho ritrovato una lettera in cui Francesco Maria Raineri si rivolge a un suo committente, a proposito di una teletta con la Visione della Venerabile Chiara Maria della Passione: l’autore dichiara che «questa picciola è l’originale e la pala d’altare ne sarà la copia».
La valorizzazione dell’invenzione diventa così consapevolezza e critica dei limiti dell’esecutività maniacale, che umilia il virtuosismo dell’esecuzione di getto in cui è l’ispirazione che conduce il gesto del pittore.
In parole semplici lo Schivenoglia interviene sul concetto di forma, intesa come qualcosa di concreto con dei precisi confini delimitanti, e si avvale del “non finito”, che inquadra il soggetto come un nucleo essenzialmente composto di stesure cromatiche e chiaroscuro integrati nel contesto d’assieme. Ne deriva un processo dinamico, una costruzione col colore che diventa critica militante verso l’esasperata compiutezza che smarrisce, nella tecnica, l’intuizione del pittore.
Oggi per noi persone del secondo millennio è facile apprezzare la fresca bellezza di una azione pittorica che rivendica la bellezza del “non finito”. Non era così scontato ai tempi dello Schivenoglia e già sul declinare del Settecento, quando incalzava il vento del Neoclassicismo, gli stessi allievi dello Schivenoglia provavano una certa stizza per i suoi modi istintivi, prediligendo già le direttive di una moda che invitava verso un più antico rigore formale.
Ma osserviamo meglio ora il Transito di san Francesco per riconoscere l’interpretazione che l’artista propone di Francesco d’Assisi.1 Il santo è colto nel suo ultimo istante di vita, nel sereno abbandono degli ultimi istanti di vita terrena, quando, dopo l’estrema prova delle stimmate, è oramai una pietra perfetta da collocare nell’edificio della Gerusalemme celeste: adagiato su un povero e dimesso pagliericcio disteso sulla nuda terra della Porziuncola, il giullare di Dio ha ora gli occhi socchiusi rivolti al cielo ed è inondato di luce, metafora della presenza divina, rappresentazione del suo umano percorso che, dalla terrena rinascita spirituale nell’immagine di Cristo lo conduce ora alla beatitudine delle vita eterna, al cospetto dell’Onnipotente. La luce che si riversa sul santo, pittoricamente, è rappresentata dal semplice progressivo schiarirsi dell’ocra di fondo, in un passaggio che dalla penombra degli angeli conduce alla testa reclinata del santo, già tutto proteso nella visione della gloria futura.
Fedele alla narrazione di san Bonaventura, lo Schivenoglia ci restituisce l’immagine di Francesco innamorato di Madonna Povertà: il suo guardiano lo ha appena rivestito di una tunica e di un cingolo di cui dunque egli non ha il possesso ma solo un prestito. Nell’istante del trapasso Francesco desidera solo i vangeli e ai suoi confratelli chiede che si reciti un passo di Giovanni: «con la mia voce al Signore io grido, con la mia voce il Signore io supplico […] mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa».2
Il 4 ottobre 1226, giunge per Francesco «sorella morte». Ed è questa sorella morte che Francesco Maria Raineri interpreta con il Transito: le immagini coinvolgenti del santo, riverso e proteso nell’ultimo istante di vita, e del frate guardiano in dolorosa e piangente devozione si sommano ad esaltare l’unicità del momento. Il pittore, così credo, ha negli occhi e nella mente le immagini insuperabili che Giotto dedica alle Esequie di San Francesco nella Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze (1325-1330). Ma non vuole rappresentare il momento ufficiale e pubblico delle esequie. È un momento più intimo e delicato che l’artista vuol cogliere fissandosi sull’attimo del trapasso.
Il pittore, quando esegue il Transito posto sotto i nostri occhi, ha già messo a punto un modo di comporre la scena sulla tipologia dei recitativi. Mi riferisco a una serie di opere, generalmente costruite sulla base di un’inquadratura orizzontale della finestra pittorica, in cui, drasticamente, il pittore fa recitare un numero ridotto di figure per mettere a fuoco, con pochi e basilari protagonisti, azioni cruciali del racconto, sacro o profano che sia. Le figure di spicco della narrazione, alla maniera di quanto sapevano fare, un secolo prima, Guercino o Caravaggio, interpretano una parte contrassegnata da una sottolineatura affettiva: due primi attori si fronteggiano su un piano ravvicinato per rappresentare una sorta di duetto dialogante, che trova affinità estetiche e di maniera col recitar cantando del melodramma lirico.
Con tale drastica riduzione di protagonisti il pittore ci conduce, innanzitutto, all’osservazione ravvicinata del santo e poi ci suggerisce, con intento devoto, un invito ad immedesimarci nel frate piangente, mentre i giochi di luce e ombra che modellano le figure e lo spazio del primo piano contribuiscono a far emergere l’evidenza fisica dei due protagonisti. Ci sono, nella figura del frate guardiano, superbi elementi di grande pittura. Osservate ad esempio il dettaglio del fazzoletto stretto nella mano destra: il colore nei rapidi tocchi dell’artista compone un tessuto che sembra liquefarsi per le innumerevoli lacrime versate. Il pittore rifugge dunque l’elemento naturalistico a favore della metafora poetica. Il colore dei sai che avvolgono i due corpi non cerca inutili masse scultoree: il colore nutre gli occhi di chi guarda col bel disegno delle ampie pieghe dei tessuti, con oscurità profonde e sapienti lumeggiature. L’artista, più che rivolgersi a una rappresentazione plastica, si esalta per il piacere segnico delle pennellate, che si distendono sulla superficie della tela. Al centro dell’opera, contro un fondo di ocra luminosa e in un controluce incantevole, emerge un tocco di magnifica suggestione: le mani dei due frati-fratelli prima si stringono e poi si sciolgono a rappresentare l’istante fuggente dell’ultimo palpito di vita terrena del Santo. La presa delle mani che si scioglie non è solo un espediente pittorico sapiente quanto un’invenzione della rappresentazione, utile a condurre lo spettatore, come in un melodramma, all’acme della rappresentazione teatrale-pietistica. Allo stesso modo il Vangelo, legato al corpo di Francesco d’Assisi dal nodoso e ruvido cingolo, rimanda al concetto di “alter Christus”, all’uomo che fece del verbo del Messia la regola di vita, all’uomo che chiede ai suoi correligionari di cantare al suo letto di morte, all’uomo che amava tutte le creature, animali feroci compresi, perché teofania dell’ Onnipotente. Il dettaglio pittorico nella sua corsiva e icastica chiarezza ci mostra in modo concreto l’efficacia comunicativa dello Schivenoglia, pur nell’utilizzo del “non finito”. Ma osserviamo, nella sua interezza, il corpo del santo, col capo reclinato: esso forma un angolo retto che si delinea sotto la diagonale che attraversa la tela dalla parte alta a sinistra fino a destra. Di lato due angeli, con vezzi arguti che ricordano quelli che il Parmigianino seppe fissare nel Cupido che fabbrica l’arco, s’interrogano, osservando la scena, in un silente dialogo. Se nella raffigurazione il disegno segue la forma, la linea ha però il sopravvento sul colore: anche qui nessuna insistita ricerca di plastica scultorea, di rigidi e duri chiaroscuri. Il colore si dilava entro i contorni delle figure, per sacrificare una possibile accentuata modellazione all’armonia complessiva dell’opera e del colore.
E in questa profusione di ocra rossa e gialla, di argille brune, di terre d’ombra e di Siena corrette da neri di carbonella di vite, di verdaccio per l’incarnato, tutto appare umile ed essenziale, a partire dai colori ordinari e antichi, poveri come il poverello, austeri come si addice all’etica dei francescani.
Il Transito di San Francesco, se era l’opera di maggiore suggestione che chiudeva la piccola mostra mantovana, qui a Schivenoglia apre, all’insegna della coerenza espressiva e dell’originalità, un recupero e una valorizzazione dell’artista che è ben lungi dall’essere concluso.
Quando lo Schivenoglia dipingeva opere come questa che stiamo ammirando, il percorso che portava a una autoctona ripresa della qualità dei maestri del Seicento con la grazia tipica della sensibilità settecentesca era oramai compiuto. Vale la pena quindi di sottolineare, ancora una volta, come Francesco Maria Raineri, a fronte della modesta eredità lasciata a Mantova dagli ultimi pittori di corte, da Frans Geffels a Pietro Fabbri, avesse compiuto un’operazione davvero eroica nel risalire il declino in cui era scivolata la pittura mantovana a cavaliere tra Seicento e Settecento. Il suo talento, sia nel mestiere sia nell’aggiornamento delle tematiche, come abbiamo cercato sinteticamente di evidenziare in una trattazione breve ma sinceramente sentita, cerca di riconsegnargli il merito di aver dato una spinta autentica e decisiva all’avvio della pittura rococò. Ed è un merito da ascrivere alla sua peculiare personalità di artista diverso e anticlassico, che affida, alla fine del suo percorso, il testimone della ricerca a Giuseppe Bazzani, l’altro pennello virtuoso del Settecento mantovano.
1 Vd. C. Volpe, per un profilo dello “ Schivenoglia” “Arte Antica e Moderna” n. 24, 1963, pp. 337-339; N. Clerici Bagozzi, Ultime ricerche sullo Schivenoglia:le battaglie e altre novità, in Paragone, rivista mensile di arte figurativa e letteratura fondata da Roberto Longhi, anno XXIX, n. 341, luglio 1978, pp. 40-58. L’opera che era stata battuta all’asta Finarte del giugno 1973 (Finarte, Dipinti antichi, 6 – 7 giugno 1973) è stata attribuita allo Schivenoglia già da Carlo Volpe, contattato allora dall’anonimo acquirente fiorentino. Carlo Volpe così scriveva il 6 dicembre del 1973: «conosco la nobilissima tela in suo possesso […] ed infatti l’autore del dipinto, a me ben noto per averne fatto oggetto di uno studio nel 1963, è il mantovano Francesco Maria Raineri, detto lo Schivenoglia». La tela è stata oggi acquisita dalla comunità mantovana a seguito di una vendita degli eredi del collezionista fiorentino che l’aveva acquisita nel 1973.
2Leggenda Maggiore, XIV,5, in: Fonti Francescane, Padova – Assisi 1980, p. 958
Gianfranco Ferlisi